Milano 18.02 • 09.04.2016
In mostra una quindicina di opere testimoniano lo straordinario percorso artistico, dalle prime opere di Land Art e Body Art, movimenti dei quali Oppenheim è da considerarsi a pieno titolo tra i caposcuola, sino alle più recenti installazioni. Visibili in Galleria alcuni capolavori del Maestro americano come Ground System (1968), serie di lavori che vennero esposti nella sua prima mostra a New York, Branded Mountain (1969), atto di denuncia della brutalità umana nei confronti del mondo animale, ed alcune installazione più recente come Digestion (1989) opere degli anni ’80 definite Fireworks. La mostra è accompagnato da un ricco apparato bibliografico che ripercorre le tappe più salienti di Oppenheim. In catalogo (edizione Silvana Editoriale • Montrasio Arte) un testo di Raffaele Bedarida dal titolo Short Circuit ben esplicita tutta la complessità dell’opera dell’autore americano.
Dennis Oppenheim dopo aver concluso gli studi al California College of Arts and Crafts e alla Stanford University, e, dopo una visita a New York nel 1966, decide di abbandonare la realizzazione di oggetti artistici. Si trasferisce a New York e fino al 1969 si dedica alla realizzazione di progetti su vasta scala incentrati su interventi in spazi naturali, quali la modificazione di parti di paesaggio o il trasferimento di materiali associati a un luogo su uno spazio radicalmente differente, come i lavori su terreni sulle due sponde innevate del fiume St. John, o i cerchi concentrici alla frontiera tra il Canada e gli Stati Uniti. In pochi anni produce un vasto corpus di azioni all’aperto, lavori-chiave della prima stagione della Land Art e, quasi nello stesso tempo, sviluppa una serie di performance dall’intenso coinvolgimento fisico, guadagnando l’attenzione critica. Insieme a Bruce Nauman, Robert Smithson, Michael Heizer, Vito Acconci, Robert Morris e Gunther Uecker, di quella generazione di artisti di area americana che ha contribuito in modo determinante a rinnovare l’idea e i linguaggi dell’arte contemporanea. Già nel 1968, a proposito dei suoi primi “earth-works”, Lucy Lippard conia il termine “dematerializzazione” con ciò sottolineando una caratteristica dominante e originale nel lavoro di Oppenheim, quella di una forma che transita da un materiale o un oggetto all’altro facendosi emblema del fare, ma insieme segno fisico epifanico di un divenire che non ha fine. Sotto questo profilo, esistono molte opere, sia tra quelle della fine degli anni sessanta, sia tra quelle più recenti, che testimoniano la sua predilezione, tra i vari organi di senso, per il tatto, l’ideaepidermica della forma, dell’oggetto, delle cose. Il trasferimento di una forma da un contesto all’altro (idea non manipolatoria) si intreccia con quella di impronta che richiama pur sempre la mano e il toccare. Una precisa consapevolezza delle possibilità del suo corpo, che sviluppa durante la realizzazione dei molti progetti di Land Art, lo spinge a interessarsi a esso come a un campo malleabile di resistenza e di energia trasformabili. Fra i primi artisti ad adoperare il film e il video come mezzo non solo per documentare, ma anche per ricercare e saggiare le proprie possibilità fisiche e psicologiche, in una vasta serie di esperienze prodotte primariamente fra il 1970 e il 1974, Oppenheim adopera il proprio corpo come un luogo in grado di sfidare limiti e previsioni. Attraverso gesti di trasformazione e di manipolazione di materiali con il proprio corpo, arriva ad azioni performative dall’intensa componente ritualistica. Utilizzando spesso elementi naturali tratti dall’ambiente, come piante o pietre, sviluppa forme fisiche di relazione tra le sue forze e tali oggetti o direttamente sull’ambiente naturale.